Per essere più precisi 4 romanzi più una tragedia e tutti, in un modo o nell’altro, hanno riacceso in me il desiderio di scrivere.
Durante la fase di risalita dalla mia stagnazione, una delle prime cose che ho ripreso a fare con una certa continuità è stato leggere. Al pari delle mani, anche le miei abilità da lettore si erano parecchio arrugginite. Oltre alla mia volontà di riprendere, per serie di fortunate coincidenze, è accorso in mio aiuto il progetto di gruppo di lettura mensile organizzato dall’Associazione Amici della Biblioteca di San Salvatore Telesino, di cui faccio parte del consiglio direttivo e in cui milito da più di dieci anni.
Non era il caso di adottare la tecnica ad alto impatto perché, come ben sapete, più desideriamo qualcosa più il nostro inconscio s’impegna ad allontanarla da noi. Così le prime scelte di lettura sono ricadute su romanzi molto leggeri, ciascuno di genere diverso e con un numero contenuto di pagine. Al termine dell’estate iniziavo a sentirmi pronto per i famosi “mattoni”, ma ho desistito di proposito per evitare di scegliere un romanzo dalla pila dei “non ancora letti” ed incappare in una delusione. Dopo aver passato in rassegna la mia collezione di romanzi e saggi, ho optato per la rilettura di uno dei miei romanzi preferiti:
La leggenda del santo bevitore – Joseph Roth
Pubblicato nel 1939 postumo alla morte dell’autore, La leggenda del Santo Bevitore narra del clochard Andreas Kartak e dell’enigmatico incontro notturno, sotto i ponti della Senna, con uno sconosciuto che gli offre duecento franchi. Kartak, che ha un senso inscalfibile dell’onore nonostante la sua misera condizione, non vuole accettare perché sa che non potrà mai rendere quei soldi. Lo sconosciuto, però, gli suggerisce di restituirli alla «piccola santa Teresa» nella chiesa di Santa Maria di Batignolles, quando potrà. Da quel momento in poi la vita del clochard diventa un’impresa colossale per mantenere la parola data.
L’intero romanzo ruota intorno alla contrapposizione: Kartak vorrebbe una sola cosa nella sua vita, cioè rendere quei soldi, ma eventi esterni lo spingono a soddisfare l’insito sentimento di infrangere la promessa lasciandosi andare ad innumerevoli pernod, a donne che il caso gli fa incontrare, a vecchi amici che riappaiono come comparse fantomatiche ed evanescenti, più simili a creature oniriche che a persone in carne ed ossa.
Questo è uno di quei romanzi che ha diverse chiavi di lettura, soprattutto se conoscete la vita di Roth, ma che mostra in maniera magistrale i sentimenti di tutti coloro che si sentono in qualche modo estranei alla società, che vivono di ricordi e dei sentimenti che questi contengono gelosamente senza trovare la forza di andare avanti, eppure si abbandonano consapevolmente alla lenta disgregazione offerta dal non essere e dal non possedere. Una magnifica riflessione e una lezione di vita ad alto impatto che vi consiglio di leggere.
Non ne sono uscito bene, lo ammetto, ma non volevo tornare in quel cupo vuoto di annullamento melanconico dopo essermi imposto la volontà di rimettermi in sesto. Le riflessioni sul romanzo di Roth le ho plasmate in un monito personale, una sorta di santino da portare sempre con me nella tasca del portafoglio dove dovrebbe essere la carta d’identità dell’anima. Una nuova spinta, una nuova forza che mi ha ricondotto ai miei libri e indotta a sfilare dalla pila
I Tre Moschettieri di Alexandre Dumas
Seguire il processo evolutivo del guascone D’Artagnan, alle prese con gli intrighi di strade e vicoli e incastri politici della parte Parigi del XVII secolo, è sempre per me un viaggio affascinante ed emozionante. Il suo scontro-incontro con i tre famosi moschettieri, ai quali ambiva aggiungersi, l’introduzione della perfidia politica e affaristica di Richelieu e della gentilezza venerea di Constance, a cui si contrappone la magnifica Milady, creano un’atmosfera narrativa estremizzata e divertente, a mio parere, capace di estirpare qualsiasi cupezza d’animo.
Anche se leggero come romanzo, Dumas ha magistralmente saputo maneggiare il “materiale umano” da lui stesso creato: il senso dell’onore, il malessere e la saggezza di Athos si mescola alla perfezione con la duplice natura di Aramis, gesuita fedelissimo alla croce quanto alle belle donne con cui si intrattiene, e quella schietta e diretta di Porthos, onesto, un po’ ingenuo e il più estroverso del gruppo, amante del vino, delle donne della musica. Maestri improbabili per un giovane cadetto, ciascuno a modo loro lo arricchiscono e fino a fargli sviluppare il vero senso del valore che deve possedere prima l’uomo poi il moschettiere; ultima dote è l’importanza del “peso del cuore”, insegnata a D’Artagnan da Athos narrandogli la sua triste vicenda, che è l’abilità necessaria per comprendere la verità ancor prima di declamarla e l’unico mezzo per proteggere se stessi e la corte dal veleno degli intrighi.
Il libro giusto per infiammare il mio animo, che ad ogni rilettura ha uno strano effetto spronante su di me. Certo, Dumas non è certo noto per l’esattezza storica e i dettagli – l’ho sempre ritenuto un impressionista letterario, ma al pari di Hugo, altro autore che venero, è un “estremista della narrazione” dei personaggi e della manifestazione dei loro sentimenti a tal punto da renderli tutti, senza ombra di dubbio, indimenticabili.
Rinfrancato, mi sono buttato alla ricerca di un ulteriore romanzo da rileggere tra quelli che più mi erano rimasti dentro per i motivi più diversi. Così ho puntato il dito al ripiano dove ho sistemato per bene la mia collezione di “dorsi gialli” e rispolverato
Picatrix. La scala per l’inferno di Valerio Evangelisti.
Questo volume dalla magnifica ed inquietante copertina, è il quarto episodio della saga dell’inquisitore Nicolas Eymerich ideato da uno dei più prolifici geniali autori italiani: Valerio Evangelisti.
Pubblicato nel 1998, Picatrix narra le vicende del terribile frate domenicano inviato in missione nel regno arabo di Granada e, accompagnato dal marrano Alatzar, raggiungerà le misteriose Isole Felici, al largo della costa africana oltre le Colonne d’Ercole, per sciogliere l’enigma dell’oscura profezia secondo cui il regno dei cristiani finirà “tra teste di cane e alberi di sangue”. Un libro dal ritmo incalzante, con il classico tocco di Evangelisti che dosa magistralmente logicità e irrazionalità del tempo – Spagna del XIV secolo – dove il misterioso libro di magia, il Picatrix per l’appunto, la fa da padrone.
Alle parti storiche si legano quelle futuristiche-fantascientifiche che caratterizzano la saga: un esodo di bambini di dimensioni apocalittiche avviene a causa di strani luci nel cielo mentre il professor Frullifer, in un manicomio delle Canarie, assiste allo strano comportamento di alcuni internati che, una volta l’anno, latrano come cani… e smettono solo quando l’effigie del Diavolo viene arsa sul rogo.
Che dire… una lettura che mi ha tenuto attaccato alle pagine allo stesso modo in cui lessi il romanzo per la prima volta. Con la variante, questa volta, di aver posto maggiore attenzione ad alcuni meccanismi narrativi e tecnicismi che mi erano sfuggiti all’epoca e di aver fatto consolidare in me l’idea che non sempre l’oro letterario viene prodotto all’estero e importato sul nostro mercato, anzi, tutt’altro.
Ma passiamo al mio libro preferito in assoluto scritto dal mio autore preferito – sperando sempre che Fedor mi perdoni da lassù per avere un debole per Hugo e Poe:
I Demoni del maestro Fedor Dostoevskij
Non voglio spendere troppe parole per questo romanzo che ogni lettore e ogni scrittore deve aver letto almeno una volta nella vita. Come tutti i romanzi di Dostoevskij, il padrone indiscusso della scena è il dramma dell’Uomo: la fragile creatura animata dai suoi desideri tramutati in una volontà resa cieca dall’ideale, incapace fino al momento ultimo di rendersi conto dell’autodistruzione intrinseca a tale comportamento. L’anima de “I Demoni” è nichilismo allo stato puro che getta sguardi accattivanti ad un ideale rivoluzionario informe e violento. Incarnazioni di queste forze distruttive, perfette in ogni loro aspetto e debolezze sono Pëtr Verchovenskij e il demoniaco Stavrogin.
Leggetelo, non ve ne pentirete. Oppure se siete scrittori studiatelo!
Quando ho girato l’ultima pagina di questo capolavoro ero in uno stato molto simile all’ubriachezza. Nella mia mente si era formata una massa informe e agitata fatta di pensieri che si sovrapponevano ad immagini che si sovrapponevano a ricordi. Il caos, forse quello dei primordi. Ma sta di fatto che quel globulo nero ha sfaldato in un baleno molti dei blocchi che avevo inconsciamente attivato riguardo alla scrittura.
Il fiume ha rotto gli argini e la piena ha trascinato alla luce della mia attenzione moltissimi frammenti appartenenti alle idee informi o ai romanzi a cui avevo iniziato a lavorare prima del down psicologico. Sono ritornato a respirare, a sentire le voci delle persone che incontravo per strada ponendo attenzione a ciò che dicevano e come lo dicevano, trasponendo i loro concetti in ipotetiche conversazioni dei miei personaggi. Una tra queste frasi in particolare, molto forte e che aveva per argomento lo strano comportamento di una persona, mi ha riportato alla memoria la frase “Appari come il fiore innocente, ma sii la serpe che si nasconde sotto.” ed è stato subito
Macbeth – William Shakespeare
Potrei parlare di questa maestosa e terrificante tragedia per ore e ore, ma preferisco utilizzare un solo termine per definirla: pulsione.
Dialoghi perfetti, personaggi tetri e votati unicamente al proprio interesse. Soprannaturale. E che soprannaturale! Le tre streghe di Macbeth – le Parche, o Moire se siete grecisti o Norme se filonorreni – rasentano la perfezione in tutto ciò che dicono o fanno. Per non parlare della tenebrosa e machiavellica Lady Macbeth, che suggerisce e supporta il marito in tutte le scelte utili ad avvicinarlo alla vetta del potere. Il sangue, dopotutto, è un mezzo come un altro per raggiungere i propri scopi. Anche quest’opera: se siete lettori e ancora non avete letto quest’opera, RIMEDIATE IMMEDIATAMENTE! Se siete scrittori: studiatela approfonditamente!
Ho letto la tragedia in un pomeriggio. La notte non ho dormito. Troppe idee, troppi incasinati intrecci narrativi hanno preso vita nella mia mente. Alcuni li ho appuntati sulla Moleskine che ho sempre sul comodino – su cui appunto i sogni o gli incubi più significativi che faccio… ma questa è un’altra storia di cui vi parlerò presto! – ed erano così perfetti che ci sto già lavorando, altri sono informi, sconnessi, da affinare e li riprenderò non appena avrò genio.
Ed eccoci qui, al termine di questo breve excursus riguardante la mia risalita. Spero che questi “5 romanzi che hanno riacceso in me il desiderio di scrivere” possano risultarvi interessanti e ispirarvi nel modo più affine alla vostra creatività o curiosità.
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Gianmario